Recensione Album: Lana Del Rey - Honeymoon

Il terzo album è sempre una sfida. Lo è ancora di più se sei Lana Del Rey, ormai figura comunemente nota nell'ambito mainstream. Attesa impazientemente dal suo grande fanbase, ancora di più dai suoi tanti detrattori. Del Rey si è sempre mossa con circospetta abilità, costeggiando i limiti della canzone pop senza abbracciare pienamente la musica alternative.

Se il lavoro di debutto risulta tra i più venduti dell'ultimo lustro, Ultraviolence ( qua per rileggere la nostra recensione ) non ha brillato da un punto di vista strettamente commerciale, colpevole una promozione poco accurata; d'altra parte però, ha messo d'accordo critica e pubblico, lasciando gli oppositori a bocca asciutta.

Per Honeymoon il discorso cambia nuovamente: il disco, già dai primi giorni dalla sua pubblicazione desta sospetti e sembra marcare più profondamente il confine tra il suo fanabase e il pubblico restante. Honeymoon non è brutto album. Piuttosto è un disco difficile, lento e spesso pedante, che non mostra grande evoluzione nel percorso artistico della cantautrice newyorkese. Se ci si aspettava quindi che Del Rey avrebbe spostato ancora più in là l'asticella, si rimane delusi: Honeymoon strizza l'occhio alle sonorità del debutto, ma dimenticandosi della sua produzione eccessiva, proprio come in Ultraviolence. Si muove in questo range in lungo e in largo, toccando di tanto in tanto melodie già sentite e storie già narrate. Senza dubbio si raggiunge un nuovo stadio nel percorso di semplificazione del sound, mettendo da parte molti elementi compositivi. Ed è forse proprio il risultato di questo eccessivo alleggerimento l'ostacolo più grande all'ascolto del disco. Le quattordici tracce sono certamente ben amalgamate, il che rende il lavoro organico ma poco scorrevole, faticoso nel suo snocciolamento; nell'ascolto di Honeymoon si entra in punta di piedi, e si avanza con un andamento narcolettico. Nel procedere, si ha la sensazione che il canto straripi oltre i confini fino a soffocare il tappeto musicale, già di per sè a tratti quasi inconsistente; il sound è costruito introno a scie di violino, eco di fiati e beat elettronici, ma gli arrangiamenti paiono appena accennati. Il tutto suona come annacquato e pecca di spessore. 


Volendo analizzare nel dettaglio alcune tracce, emergono gli stessi inconvienti notati nella visione di insieme: la title track ad esempio, una ballata sognante dal sapore retrò, esaspera per la lunghezza e disperde quel calore bucolico ben raffigurato nella cover del singolo; Terrence Loves You, straziante litania dalle venature jazz, cita Bowie senza con ciò riscattare la banalità del testo; Music To Watch Boys To è costruita attorno ad un ritmo arabeggiante che trascina poco e mastica una melodia già nota che somiglia ad un' autocitazione. Il primo singolo, una midtempo con beat elettronico e testo birichino, è ben lontana dalle precedenti produzioni della cantante. Freak ripete l'esperimento di High By The Beach con risultati più felici, eccetto la coda strumentale che chiude il pezzo. Addentrandoci nel cuore del lavoro, l'attenzione è catturata dai punti più alti: Salvatore, contenente un breve sample di Careless Whisper ( perla anni '80 firmata Wham), in cui la cantante si cimenta in un buffo italiano, Art Deco con un flavour da colonna sonora e Religion, la cui eleganza nell'arrangiamento emerge luminosa. Sul finire dell'opera, The Blackest Day procede stanca annegando in un arrangiamento sciatto e la cover Don't Let Me Be Misunderstood era bene lasciarla a Nina Simone.


Gli album della Grant sono sempre ben costruiti, per quanto mai perfetti. Ne rimangono sempre fuori potenziali filler e ogni traccia è inserita in una cornice di fondo. Anche Honeymoon presenta un concept ben fermo attorno a cui ruotano le tracce, ma è la produzione, mista alla reticenza al cambiamento, ad affaticare il prodotto. Ascoltando Honeymoon ci si immagina in un pomeriggio afoso, dardeggiati dalla canicola estiva distesi su un prato, mentre il lento incedere delle ore la fa da padrone. Ne consegue che il senso di affatticamento e il tedio traboccante siano la conseguenza di una visione d'insieme predeterminata. Una visione che non soddisfa appieno. Nessuno sforzo viene compiuto per modificare, anche solo un poco, le tematiche nelle liriche. Perché farlo, del resto? I personaggi descritti dalla cantautrice rientrano in un preciso schema, intorno a cui è costruito il suo personaggio stesso. Si potrebbe dire che la Grant si diverta ad indossare vesti non sue, a fissarsi in pose plastiche. In effetti, in alcuni punti più che in altri, si ha il dubbio che una certa genuinità tanto ostentata non sia che una mera costruzione, una posa, per l'appunto. Lasceremo sia il tempo a giudicare. Per concludere, Del Rey decide di non esplorare, di rimanere nella sua comfort - zone: con Honeymoon si limita a ripercorre percorsi già tracciati, cambiando le angolazioni. Il risultato è un album di quattordici brani squisitamente pop, nella sua accezione più musicale, ma di respiro indie, per quanto concerne la ricezione del pubblico. L'impressione finale è che Lana del Rey debba allargare maggiormente i confini della comfort - zone in cui sembra si stia trincerando, per mostrare e dimostrare l' essere umano dietro la diva.

Voto Finale:

6,5/10

Recensione a cura di Matteo Zandri

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